Lavoro, da oggi puoi insultare i tuoi superiori | Sentenza epocale: sono costretti ad accettarlo in silenzio

Lavoratore furioso (Depositphotos foto) - www.financecue.it
Una storica sentenza della Cassazione riscrive i confini della disciplina sul lavoro: da oggi questo non può più costare il licenziamento.
Al giorno d’oggi, parlare di lavoro fuori dal lavoro è diventato praticamente inevitabile. Le conversazioni tra colleghi sono ormai parte della quotidianità. E proprio lì, in quel flusso di parole, possono nascere problemi… o soluzioni inaspettate.
La linea che separa lo sfogo personale da un comportamento sanzionabile è più sottile di quanto si pensi. Spesso ci si chiede: “Ok, ma se scrivo qualcosa di un po’ pesante in privato… può davvero mettermi nei guai?” È una domanda che molti lavoratori si pongono, specie in un’epoca in cui le aziende cercano di estendere il controllo ben oltre le scrivanie.
Certo, c’è chi dice che i valori aziendali vadano rispettati sempre, anche fuori sede. Ma dall’altra parte c’è chi rivendica il diritto a dire quello che pensa, almeno in certe situazioni. Soprattutto se si tratta di un gruppo ristretto, magari con solo colleghi fidati. È lì che nasce il dilemma: fino a che punto il datore può mettere il naso nelle conversazioni private?
Negli ultimi tempi, questo confine è stato messo più volte alla prova. E spesso ci si è affidati alla giustizia per capire come muoversi. Ma c’è una novità che potrebbe cambiare parecchie cose. O meglio, una sentenza. E non una qualsiasi.
Cambia tutto, ma solo in questo caso
Come riporta Brocardi.it, la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 5936 del 6 marzo 2025, ha tirato fuori una decisione che ha fatto parecchio rumore. In breve? Un lavoratore era stato cacciato via dopo aver insultato (e non poco) il proprio superiore all’interno di un gruppo WhatsApp chiamato, ironicamente, “Amici di lavoro”. Il problema è che quei messaggi vocali sono poi finiti nelle orecchie sbagliate: quelle dell’azienda.
Nonostante il tono pesante e – diciamolo – anche razzista di certi audio, la Corte ha detto stop: non si può licenziare qualcuno per cose dette in una chat privata. E sai perché? Perché, secondo i giudici, la privacy viene prima. È tutto nero su bianco nella nostra Costituzione, all’articolo 15. Quello che succede in un gruppo chiuso resta lì dentro, almeno finché non diventa pubblico in modo chiaro e volontario. Insomma, una bacheca Facebook non è una chat WhatsApp, e c’è una bella differenza. Ma non finisce qui.
Quando l’azienda ascolta, ma non dovrebbe
C’è anche un altro dettaglio che ha pesato non poco nella decisione. I messaggi incriminati, infatti, non sono stati scoperti dall’azienda per caso o per indagine interna. È stato un collega a passarli, e questo – secondo la Corte – non giustifica affatto l’uso di quel materiale per punire il dipendente. È una questione di principio: anche se quello che dici è sbagliato, non vuol dire che chi ascolta possa usarlo contro di te, se il contesto è privato.
Tra l’altro, l’azienda ha provato a difendersi appellandosi all’art. 2087 del Codice Civile, dicendo di dover tutelare la salute del superiore offeso. Ma anche lì, la Cassazione ha tenuto il punto: la gravità delle parole non cambia la natura privata della chat. E se il messaggio era destinato solo a pochi, allora non può diventare una bomba disciplinare.